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Autore:Serena Baronchelli

Impugnativa di bilancio e conseguenze

giovedì, 14 aprile 2016 da Serena Baronchelli

La rettifica del bilancio impugnato e le ripercussioni sui bilanci successivi

Cass. Civ., Sez. I, 8 marzo 2016 n. 4522

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione, nel decidere un ricorso sull’impugnativa di bilancio di esercizio di una società per azioni, ha riaffermato alcuni importanti principi in tema di diritto alla percezione degli utili da parte dei soci e di redazione di un bilancio d’esercizio rettificato, in esecuzione di quanto disposto dalla sentenza che detemini l’irregolarità del bilancio.

La società ricorrente lamentava che il Giudice di secondo grado non avesse riconosciuto il suo diritto alla percezione degli utili risultanti dalla rettifica dei precedenti bilanci d’esercizio, operata dagli amministratori della società per azioni della quale la ricorrente era azionista in ottemperanza a quanto disposto dalla pronuncia che aveva dichiarato la nullità dei bilanci stessi. La ricorrente, inoltre, censurava la sentenza di secondo grado, in quanto, a suo dire, escludeva la violazione dei principi di chiarezza e precisione nella redazione dell’ultimo bilancio d’esercizio (bilancio al 31.07.2005), approvato con la stessa delibera del 21.11.2005

Il Supremo Collegio, condividendo la conclusione del Giudice di secondo grado circa l’esclusione del diritto della ricorrente alla percezione degli utili, ha precisato che dall’art 2433 c.c. non discende il diritto degli azionisti alla distribuzione degli utili, poiché tale diritto sorge soltanto nel momento in cui la maggioranza assembleare dispone l’erogazione ai soci. L’assemblea, infatti, può decidere di accantonare gli utili ovvero di reimpiegare gli stessi nell’interesse della società.

Orbene, nella vicenda in esame la delibera assembleare del 21.11.2005 aveva disposto “il riporto a nuovo del residuo degli utili” dei bilanci rettificati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), conformemente, peraltro, a quanto stabilito dallo statuto sociale vigente nel 2005. Ne conseguiva che in capo alla ricorrente non sussisteva alcun diritto di partecipare alla percezione dei dividendi.

Il ricorso veniva rigettato anche con riferimento alla seconda censura sollevata dall’appellante e relativa al diritto del socio a far valere la pretesa violazione dei principi di chiarezza e veridicità dei bilanci.

Secondo la ricostruzione della ricorrente, il bilancio d’esercizio al 31.07.2005 violava i principi sanciti dall’art. 2423 comma 2 c.c. e pertanto doveva considerarsi nulla la delibera con cui lo stesso bilancio era stato approvato. Nel dettaglio, la ricorrente asseriva che il bilancio approvato con la delibera oggetto d’impugnazione (bilancio al 31.07.2005) ometteva di indicare dati emergenti della rettifica operata sui bilanci relativi agli anni 1979, 1980 e 1981.

Il principio di continuità dei valori di bilancio trova applicazione anche nel caso in cui l’esattezza o la legittimità del bilancio dell’anno precedente sia stata messa in discussione in sede contenziosa. Il dovere degli amministratori di apportare al bilancio le modifiche imposte dalla sentenza che definisce la controversia sorta sull’esattezza e la legittimità del bilancio, nasce soltanto con il passaggio in giudicato della pronuncia. Pertanto, contrariamente a quanto asserito dalla ricorrente, i bilanci rettificati non dovevano avere necessariamente effetto sul bilancio successivo alla delibera relativa all’approvazione dei bilanci rettificati.

L’assemblea, nel caso in esame, ha rettificato i bilanci precedentemente impugnati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), per effetto del giudicato formatosi con la pronuncia resa dalla Cassazione sull’impugnativa dei precedenti bilanci (Cass.n. 23976/2004). Tale rettifica, come accertato dalla stessa sentenza impugnata, è conforme alle delibere di approvazione dei bilanci successivi a quelli impugnati, dichiarate valide o considerate tali, in quanto non impugnate (le delibere di approvazione dei bilanci dal 1982 al 2005 non hanno infatti dato luogo ad alcuna contestazione).

I giudici di Piazza Cavour hanno quindi condiviso l’assunto della Corte d’appello, ribadendo che la delibera del 21.11.2005 è immune dalle censure concernenti i principi di chiarezza e di veridicità del bilancio, poiché i bilanci rettificati non dovevano produrre alcun effetto sul bilancio al 31.07.2005.

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Bancarotta e piano di risanamento

giovedì, 24 marzo 2016 da Serena Baronchelli

Il reato di bancarotta fraudolenta è configurabile anche se viene presentato un piano di risanamento.

 
Cass. pen. 8926/2016

Due società proponevano ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato il decreto del G.i.p. del Tribunale di Chieti, con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso aziendale di una società dichiarata fallita, nell’ambito di un’indagine nei confronti del debitore fallito per l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta.

Le ricorrenti avevano acquistato dalla fallita tutti i beni aziendali, in pendenza di una domanda di concordato preventivo, alla quale il debitore fallito aveva poi rinunciato (rinuncia avvenuta a gennaio 2014) e alla quale era poi seguita la presentazione di un piano di risanamento aziendale, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. (marzo 2014), in concomitanza dell’avvio di una procedura di fallimento.

La dismissione degli assets aziendali era avvenuta in seguito all’avvio della procedura prefallimentare (il debitore era già comparso dinanzi al Tribunale per la delibera sull’istanza di fallimento avanzata dal Pubblico Ministero), iniziata in seguito alla chiusura della procedura di concordato, ma antecedentemente alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.

Le ricorrenti lamentavano che il Tribunale, nel confermare il decreto del G.i.p. di Chieti, avesse omesso di considerare l’insussistenza del fumus commissi delicti del reato ipotizzato, con riferimento all’elemento soggettivo; evidenziando che il trasferimento dei beni era avvenuta prima della pubblicazione della sentenza di fallimento e che, inoltre, i creditori insinuati non avevano subito alcun pregiudizio, poiché era stati soddisfatti e il fallimento era stato poi chiuso.

La Corte di Cassazione, chiamata a decidere la controversia in esame, ha statuito che l’alienazione dei cespiti aziendali in esecuzione di un piano di risanamento presentato nella fase prefallimentare, costituisce una condotta distrattiva, laddove l’alienazione sia diretta a pregiudicare le garanzie per il ceto creditorio (Cass. pen. Sez.V, 03.03.2016, n. 8926).

I Giudici di Piazza Cavour, nel rigettare il ricorso proposto, hanno evidenziato che il provvedimento impugnato ha dato contezza del fumus del delitto contestato, relativamente all’elemento soggettivo. Per la Cassazione, infatti, gli atti dispositivi posti in essere dal debitore, in pendenza di una procedura prefallimentare, quando la società non è in grado di far fronte alle sue obbligazioni, sono diretti esclusivamente a privare la società del suo patrimonio,senza nessuna garanzia di soddisfacimento dei creditori sociali. A nulla rileva la circostanza che i creditori avessero rinunciato ai loro crediti insinuati tempestivamente al passivo del fallimento, poiché il pericolo per la soddisfazione dei creditori era sorto al momento dell’alienazione dei beni e il provvedimento impugnato dava comunque atto della presenza di creditori insoddisfatti.

La Corte ha poi fatto chiarezza sulle conseguenze derivanti dalla presentazione di un piano di risanamento, sottolineando che l’attività di alienazione svolta da un imprenditore in stato di decozione non è resa lecita dalla presentazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. La fattibilità e la serietà del piano devono essere valutate dal giudice penale, in quanto piano strumentale a salvaguardare le attività negoziali realizzate in momenti di crisi dell’impresa e, come tali, idonee a distogliere il patrimonio sociale.

Il piano di risanamento, infatti, consente all’imprenditore in stato di crisi di esercitare l’attività d’impresa, solo se detto rimedio è idoneo a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, in una prospettiva di continuazione dell’attività.

Nel caso in esame, l’attività di disposizione del patrimonio sociale non poteva essere considerata lecita per il solo fatto che la stessa fosse stata realizzata in attuazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F.; poiché il piano era stato richiesto per scopi dilatori, in seguito all’avvio della fase prefallimentare, quando ormai era evidente che non sussistevano possibilità di risanare la società.

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Diritto ad un ambiente lavorativo sano

sabato, 19 marzo 2016 da Serena Baronchelli

Responsabilità del datore di lavoro per i danni da fumo passivo.

 

Il datore di lavoro deve garantire ai dipendenti un salubre ambiente di lavoro, adottando misure sanzionatorie dirette ad arginare e prevenire il verificarsi di danni alla salute dei dipendenti, cagionati dal fumo passivo dei colleghi.

Tale principio è stato affermato da una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Cass. Civ. Sez. lavoro del 03.03.2016, n. 4211, che pronunciandosi su un’annosa vicenda che vedeva contrapposti una lavoratrice, ormai in pensione, e l’emittente radiotelevisiva RAI ha riconosciuto la responsabilità contrattuale dell’emittente per non aver adottato misure idonee a prevenire la nocività dell’ambiente lavorativo, trasgredendo agli obblighi imposti dall’art 1218 c.c.

Nel dettaglio, l’espletamento di una CTU medico–legale nel corso del giudizio di merito aveva permesso di accertare e quantificare i danni subiti della giornalista (danno biologico e morale ragguagliati nella misura del 15%) e il nesso eziologico che legava tali pregiudizi all’esposizione al fumo passivo dei colleghi, protrattasi per tutta la durata del rapporto di lavoro.

In virtù di tali circostanze, la Corte d’Appello di Roma aveva riconosciuto il diritto della giornalista al risarcimento del danno subito; disattendendo le argomentazioni adottate dalla difesa dalla RAI, secondo le quali nessuna responsabilità per il danno subito era ascrivibile all’emittente, poiché la stessa aveva emanato specifiche circolari e direttive indirizzate ai dipendenti, che imponevano specifici divieti di fumare nell’ambiente di lavoro.

La giornalista, tuttavia, ha proposto ricorso per Cassazione avverso il punto della sentenza di secondo grado che aveva escluso la violazione dell’art 2103 c.c. Nell’ambito di tale giudizio ha proposto ricorso incidentale la RAI, assumendo, in relazione all’art 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art 2087 c.c. per aver riconosciuto la responsabilità dell’emittente per “fumo passivo”.

La Corte di Cassazione, nel motivare la statuizione in esame, ha stabilito che il contratto di lavoro concluso tra il datore di lavoro e il dipendente pone a carico del primo l’obbligo di adottare le misure che si rendono necessarie a salvaguardare l’integrità fisica e la salute dei dipendenti, ai sensi dell’art 2087 c.c. Il datore di lavoro deve quindi adottare sanzioni disciplinari dirette ai dipendenti trasgressori del divieto di fumare nei locali di lavoro, in quanto misure idonee a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo. L’emanazione di circolari e direttive non rafforzate da effettive sanzioni non è sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro per i danni cagionati ai dipendenti dal fumo passivo dei colleghi (c.d. approccio persuasivo e non repressivo). I Giudici di Piazza Cavour, in applicazione di detti principi, hanno rigettato il ricorso incidentale proposto dalla RAI, sottolineando che gli avvertimenti formulati dall’emittente con le direttive indirizzate ai lavoratori erano rimasti inattuati in quanto la RAI non aveva fornito prova di aver inflitto sanzioni ai dipendenti. Per tali motivi, la Corte ha ritenuto che la RAI non avesse adottato misure efficaci a contrastare i rischi derivati dall’esposizione al fumo passivo. Di conseguenza, l’emittente non aveva fornito la prova liberatoria richiesta per escludere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ai sensi dell’art 1218 c.c.

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Contratti di investimento

domenica, 28 febbraio 2016 da Serena Baronchelli

Violazione degli obblighi informativi e nullità del contratto di investimento

La Corte di Cassazione, con sentenza del 9 febbraio 2016 n. 2535, ha affrontato il tema degli obblighi informativi posti in capo ad un intermediario finanziario nell’ambito dei contratti di investimento conclusi con i clienti. Il Collegio, nel richiamare alcuni principi da tempo affermati in giurisprudenza, ha avuto modo di precisare la portata e l’ampiezza degli obblighi di diligenza e trasparenza che incombono sull’intermediario, al fine di tutelare ed agevolare la clientela nel compimento di consapevoli scelte di investimento; statuendo che il mancato rispetto di detti obblighi informativi determina la nullità dei contratti di investimento.

La vicenda posta al vaglio del Corte trae origine dal caso di due investitori che, nell’anno 2000, stipulavano un contratto di acquisto di titoli della società “Cirio” con il Banco Ambrosiano Veneto (oggi Intesa San Paolo s.p.a.) per l’importo di € 320.000,00 e l’anno successivo effettuavano una nuova operazione di investimento per € 60.000,00. Detti investitori, nell’anno 2004, a poco più di un anno dal fallimento di alcune società del Gruppo Cirio, convenivano in giudizio l’istituto di credito, al fine di sentire dichiarare la nullità dei contratti di investimento, in quanto conclusi dalla banca in violazione degli obblighi di informazione imposti, secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento (art. 21 del D.lgs n. 58 del 1998 – Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria – e artt. 28 e 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998).

Il Giudice di prime cure rigettava la domanda avanzata dagli attori. In riforma dell’impugnata sentenza, la Corte D’appello, ravvisata la violazione degli obblighi di informazione che incombono sull’intermediario finanziario, condannava la banca Intesa San Paolo s.p.a al pagamento agli investitori di un importo di € 260.000,00, oltre agli interessi legali e alle spese. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso Intesa San Paolo s.p.a.

Il Collegio nella motivazione della sentenza in esame ha richiamato un principio già da tempo espresso in giurisprudenza, secondo il quale la banca intermediaria, prima di compiere operazioni di investimento, è tenuta a fornire all’investitore “un’informazione adeguata in concreto”, articolata in base alle esigenze del singolo rapporto e alla situazione finanziaria del cliente.

I soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie sono tenuti a fornire ai clienti informazioni adeguate circa la natura e le caratteristiche degli strumenti finanziari, il rating del prodotto, l’emittente e il rendimento degli strumenti ovvero sull’eventuale imminente default economico dell’emittente (art. 21 T.U. In materia di intermediazione finanziaria e art. 28 Reg. Consob, abrogato nel 2007, ma applicabile alla fattispecie in esame). Gli intermediari, al fine di effettuare operazioni di investimento, tengono conto delle informazioni relative ai servizi di investimento prestati, astenendosi dal compiere, per conto dei clienti investitori, operazioni non adeguate e non consapevoli (art .29 Reg. CONSOB 11522/1998).

La Corte ha precisato che l’operatività dell’obbligo informativo della banca non trova alcuna limitazione nell’ipotesi in cui i clienti siano investitori abituali, che in precedenza abbiano già acquistato altri titoli ad rischio, perchè detta circostanza non è sufficiente ad attribuire loro la qualità di “operatori qualificati”, così come delineata dall’art. 31 comma 2 del Reg. CONSOB n. 11522/1998. La qualità di operatori qualificati, infatti, presuppone la sussistenza in capo a detti soggetti, sia persone fisiche che persone giuridiche, di specifiche competenze ed esperienze in materia di operazioni in strumenti finanziari.

La professionalità e la diligenza richiesta all’intermediario finanziario non trovano limitazioni nemmeno con riferimento al caso di ordini vincolanti impartiti dal cliente e relativi al compimento di operazioni di investimento rischiose. In dette circostanze, la banca, consapevole del rischio sotteso all’investimento, ha la facoltà di recedere dall’incarico, ai sensi dell’art 24, comma 1, lettera d) D.lgs. n. 58/1998 ( T.U. Delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), in quanto ordini di investimento integrano una giusta causa di recesso dal mandato, secondo quanto previsto dall’art 1727 comma 1 c.c.

L’intermediario finanziario deve quindi adottare una condotta altamente professionale e prudente, finalizzata a tutelare il cliente e a segnalare a quest’ultimo l’eventuale inadeguatezza delle operazioni di investimento che intende compiere.

Detti profili di professionalità e diligenza non sono stati ravvisati nella condotta della banca Intesa San Paolo, che si era limitata a fornire una generica dichiarazione rivolta agli investitori (“non esiste alcuna garanzia di mantenere invariato il valore dell’investimento”), senza indicare agli stessi le caratteristiche del titolo, la natura dell’emittente e, in modo particolare, senza segnalare ai clienti che il crollo delle obbligazioni della Cirio era imminente, al momento della sottoscrizione del contratto di investimento.

Il collegio, alla luce dei principi di diligenza richiamati, ha rigettato tutti i motivi di ricorso, affermando che gli investitori, in conformità alla più recente giurisprudenza sul punto (Cass. 18039/2012), avevano ritualmente allegato l’inadempimento informativo della Banca e il nesso causale tra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato. Al contrario, la Banca non aveva assolto l’onere della prova su di essa incombente e relativo alla dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi informativi posti a suo carico.

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Controlli a distanza e Jobs Act: nuove prospettive

venerdì, 05 febbraio 2016 da Serena Baronchelli

La Corte Europea dei diritti dell’uomo “assolve” il controllo dei lavoratori a distanza.

 

Con sentenza n. 61496/08 del 12 gennaio del 2016 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che, a determinate condizioni, il datore di lavoro ha il diritto di monitorare i propri dipendenti durante l’espletamento dell’attività lavorativa quando questi utilizzano strumenti informatici per svolgere le loro mansioni. Tale pronuncia ha ad oggetto il caso di un ingegnere rumeno licenziato dall’azienda ove lavorava per avere utilizzato l’account Yahoo Messanger dell’azienda, per fini personali, in violazione della policy aziendale che gli era stata esplicitamente resa nota.

La pronuncia in esame assume particolare interesse in quanto, in qualche modo, conforta la disciplina introdotta nel nostro Paese dal Jobs act in tema di controlli sugli strumenti utilizzati dai lavoratori per rendere la prestazione lavorativa. Come noto, il nuovo art 4 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dal D.lgs 151/2015, prevede espressamente che il datore di lavoro può effettuare controlli a distanza sugli strumenti utilizzati dal dipendente nello svolgimento delle sue mansioni, senza che il controllo venga preventivamente concordato con il sindacato di riferimento. Con tale innovazione, il legislatore ha inteso attribuire al datore di lavoro una maggiore libertà in tema di controllo dei dipendenti, obbligando però il datore ad informare i dipendenti delle modalità di utilizzo degli strumenti aziendali e delle modalità di effettuazione dei controlli nel rispetto del Codice della Privacy.

Nel dettaglio, i datori di lavoro che intendono evitare un uso indebito dei mezzi aziendali hanno l’obbligo di informare i lavoratori del divieto di utilizzare gli strumenti aziendali per motivi personali ed, inoltre, hanno l’obbligo di informare i dipendenti della circostanza che attraverso l’utilizzo di tali strumenti, può essere controllata a distanza l’attività lavorativa.

Considerata la larga diffusione di beni aziendali dai quali può derivare un controllo sull’attività lavorativa (navigatori, cellulari, tablet) appare evidente che la nuova frontiera interpretativa sarà costituita dalla identificazione degli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e delle condizioni che rendono giustificati e proporzionati i controlli effettuati dal datore di lavoro, nel rispetto di quanto disposto dal Codice della Privacy.

Sul punto, è opportuno sottolineare che il Garante per la protezione dei dati personali, antecedentemente alla riforma, ha avuto modo di occuparsi di una questione concernente l’utilizzo dei dati acquisiti attraverso i Gps installati su dispositivi telefonici in dotazione a dipendenti, esprimendo parere positivo sull’uso di detti dati, a condizione che sia impedito l’accesso ad altri dati, quali sms, traffico telefonico e posta elettronica (Provv. n. 408/2014 dell’11settembre 2014 e Provv. n. 448/2014 del 9 ottobre 2014.

Appare pertanto importante che ciascuna azienda si doti di programmi di compliance che delineino in maniera chiara e trasparente la modalità di utilizzo dei dati relativi ai lavoratori.

(per maggiori informazioni o per un gradito feedback, restiamo a Vostra disposizione)

Controlli a distanzaCorte europeaJobs Actlavoro
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Valutazione di impresa

venerdì, 15 gennaio 2016 da Serena Baronchelli

I principi italiani di valutazione e la redazione dei bilanci

Il 1 gennaio 2016 sono entrati in vigore in Italia i principi italiani di valutazione (Piv), emanati dall’OIV (Organismo italiano di valutazione). Tali principi costituiscono delle vere e proprie linee guida per i professionisti che operano nel campo delle valutazioni economiche e trovano applicazione volontaria e, unitamente ai principi contabili e di revisione, mirano a migliorare la qualità dei bilanci.

Tuttavia, i Piv hanno un ambito di applicazione più ampio, in quanto delineano una serie di protocolli differenziati che i professionisti possono osservare quando effettuano una stima economica, indipendentemente dalla finalità della stima stessa. Detti principi, infatti, individuano una serie di linee guida differenziate in funzione dell’oggetto della stima (azienda, macchinari, strumenti finanziari, partecipazioni) e della finalità della stima stessa (cessione di ramo d’azienda, fusione, recesso ecc).

I Piv, inspirati agli International valuation standards emanati dall’IVSC (International valuation standard council), sono modulati al contesto economico del Nostro Paese e puntano a ridurre i margini di discrezionalità dei professionisti nell’effettuare valutazioni economiche innalzando così lo standard qualitativo dei valutatori e la fiducia negli stessi da parte degli operatori economici e degli utilizzatori. La valutazione economica, infatti, deve condurre ad un giudizio di valore chiaro e motivato e suscettibile di essere replicato.

Pertanto i Piv puntano a chiarire il processo che deve essere seguito dall’esperto e definiscono cosa il professionista non può trascurare nel corso della stima al fine di uniformare il processo di valutazione e identificano cinque opzioni comuni a tutte le attività (valore di mercato, valore di investimento, valore negoziale equitativo, valore convenzionale), che il valutatore potrà scegliere di utilizzare a seconda della finalità della stima da effettuare.

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Accordo di ristrutturazione e ceto bancario

giovedì, 01 ottobre 2015 da Serena Baronchelli

Risanamento del debito bancario: l’art 182 septies e il superamento del diniego dell’istituto dissenziente

L’art. 182 septies L.F., come novellato dalla L. 132/2015, permette alle imprese che versino in uno stato di decozione di imporre, a certe condizioni, ad un numero di creditori rappresentativi di una quota inferiore al 25% del debito bancario il contenuto di accordi volti alla ristrutturazione aziendale.

Tale operazione è possibile nel solo caso in cui il debito verso banche o intermediari finanziari non sia inferiore al 50% dell’indebitamento complessivo dell’impresa.

Nel caso in cui le banche e gli intermediari finanziari aderenti all’accordo rappresentino almeno il 75% dei crediti complessivi, il debitore può richiedere, contemporaneamente all’istanza di omologazione, che l’accordo sia esteso anche ai creditori non aderenti allo stesso, con il limite che le banche e gli intermediari finanziari cui viene imposto l’accordo abbiano interessi economici e posizioni giuridiche omogenee agli aderenti.

Il Legislatore ha dimostrato un’attenzione particolare per la fase delle trattative che precedono l’accordo ex art. 182 septies L.F., tanto da subordinarlo al corretto svolgimento delle stesse.

È infatti espressamente stabilito espressamente che l’accordo può essere esteso anche ai creditori non aderenti nel caso in cui sia garantita la buona fede nelle trattative e che tutti i creditori appartenenti alle categorie siano stati messi in condizione di parteciparvi.

L’impegno nell’assicurare trasparenza e correttezza, si spinge fino alla necessaria assegnazione in capo al debitore del compito di provvedere agli adempimenti pubblicitari connessi, che deve notificare alle banche e agli intermediari finanziari, per i quali i 30 giorni per proporre opposizione decorrono dalla data di ricezione della notifica.

In ultima battuta, rimane ferma la supervisione del Tribunale, che può avvalersi di una CTU, ove ritenga il parere di un esperto necessario ad accertare che tutte le prescrizioni siano rispettate e che i creditori non aderenti cui l’accordo sia stato imposto siano soddisfatti in misura almeno equivalente alle alternative verosimilmente praticabili.

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